L'Isola della Tempesta


25-07-2012



Ho sempre immaginato un’isola così, come quella descritta da Ken Follett nel suo romanzo “La cruna dell’ago”.
Nei miei viaggi non l’ho mai trovata, forse anche perché nelle tempeste si preferisce non viaggiare, perdendo in questo modo il momento magico della furia degli elementi.
Bisognerebbe viverci, in un’isola così.
Non si avrebbe bisogno allora della magistrale descrizione dello scrittore, e neppure bisognerebbe ricorrere al fotomontaggio, come ho fatto io, spulciando tra le mie foto,  per vedere la spaventosa bellezza dell’Isola della Tempesta.

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      E’ per posti come questo che è stata inventata la parola “desolato”.

      L’isola è un ammasso di roccia a forma di “J” che s’innalza cupa nel mare del Nord. Sulla carta è disegnata come un mezzo manico di un bastone rotto; parallela all’equatore ma molto più a nord; col manico curvo e rotto verso Aberdeen, e col moncone spezzato, seghettato, che punta minacciosamente in direzione della lontana Danimarca. L’isola misura una decina di miglia di lunghezza. Lungo la maggior parte della costa le scogliere spuntano dal freddo mare senza la gentilezza di una spiaggia. Irritate da questa asprezza le onde si abbattono sulla roccia con furia imponente; diecimila anni di ingiurie del tempo che l’isola ignora impunemente.



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     Nella parte concava della “J” il mare è più calmo, perché lì si è procurato un’accoglienza più gentile. Le maree hanno trascinato dentro la conca tanta di quella sabbia e alghe, detriti di legno, ciottoli e conchiglie, che ora, ai piedi della scogliera prima del mare, c’è una specie di spiaggia a mezzaluna.


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     Ogni estate la vegetazione in cima alla scogliera fa cadere un pugno di semi sulla spiaggia, come un ricco può lanciare gli spiccioli ai mendicanti. Se l’inverno è mite e la primavera arriva presto, un po’ di semi mettono radici debolmente; ma non sono mai abbastanza robusti per fiorire e diffondere a loro volta i propri semi, e così di anno in anno la spiaggia sopravvive per elemosina.
     Sulla terra, la terra vera e propria, tenuta al riparo dal mare dalle scogliere, cresce invece e si moltiplica un po’ di verde. La vegetazione è fatta per la maggior parte di erbacce, sufficienti appena a nutrire le poche pecore ossute, ma abbastanza robuste per trattenere il terriccio sul fondo roccioso dell’isola. Ci sono dei cespugli, tutti spinosi, che fanno da tana ai conigli; e persino una macchia di intrepide conifere sul versante sottovento della collina nell’estremo lato est.



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     La terra più alta è dominata dall’erica. Ogni pochi anni l’uomo – sì, perché ci vive anche un uomo – dà fuoco all’erica, in modo che ricresca l’erba e le pecore possano venire a pascolare; ma dopo un paio di anni l’erica ritorna, Dio solo sa da dove, e scaccia le pecore finché l’uomo non la brucia di nuovo.



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     I conigli stanno lì perché ci sono nati; le pecore perché ce le hanno portate;  l’uomo per prendersi cura delle pecore; gli uccelli invece ci sono perché amano l’isola. Ce ne sono centinaia di migliaia: pispole selvatiche dalla lunghe gambe che fanno pip-pip-pip quando si librano in aria e pi-pi-pi quando scendono in picchiata come uno Spitfire lanciato all’assalto di un Messerschmitt nell’ombra; cornacchie, che l’uomo vede raramente ma la cui presenza è testimoniata dal gracchiare che lo tiene sveglio di notte; corvi, avvoltoi, gabbiani e tantissimi paperi; e un paio di aquile reali a cui l’uomo spara a vista, perché sa – senza curarsi di quello che gli possono dire i naturalisti e gli esperti di Edimburgo – che esse piombano addosso agli agnelli vivi e non solo alle carcasse di quelli morti.


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     Il più frequente visitatore dell’isola è il vento. Viene soprattutto da nordest, dalle regioni popolate di fiordi, ghiacciai e iceberg; portando spesso con sé doni sgraditi di neve, raffiche di pioggia e una gelida nebbia; qualche volta invece arriva a mani vuote, solo per ululare e urlare e scatenare un inferno, sradicando i cespugli, piegando gli alberi e agitando l’intemperante oceano in un parossismo di schiuma rabbiosa. Non ha mai pace, il vento; e questo è il suo errore. Se venisse di tanto in tanto, potrebbe prendere l’isola di sorpresa e provocare dei veri danni; ma siccome c’è quasi sempre, essa ha imparato a viverci insieme. Le piante mettono radici in profondità, e i conigli si nascondono nel folto delle macchie, gli alberi crescono curvi dando le spalle alle raffiche, gli uccelli fanno il nido al riparo delle creste del terreno, e la casa dell’uomo è solida e squadrata, costruita con una maestria che conosce questo vento da tempi immemorabili.


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     La casa è fatta di grosse pietre grigie e tegole d’ardesia grigia, il colore del mare. Ha finestre piccole, porte solide e un caminetto incorniciato in legno di pino. Sorge in cima a una collina sulla punta est dell’isola, vicino al troncone seghettato del bastone da passeggio rotto. Domina la collina come una corona, imbattibile contro il vento e la pioggia, non per sfida ma per consentire all’uomo di vedere le pecore.


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     C’è un’altra casa, molto simile, a quindici chilometri di distanza sul lato opposto dell’isola, vicino a quella specie di spiaggia; ma non ci vive nessuno. Una volta ci abitava un altro uomo. Pensava di saperne più dell’isola; e pensava di poter piantare avena, patate e allevare vacche. Lottò per tre anni col vento, col freddo e con il suolo prima di ammettere che aveva torto. Quando se ne andò, nessuno aveva voluto la sua casa.


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     L’isola è un posto duro. Ci resistono solo cose dure: rocce dure, erbaccia, pecore ossute, uccelli selvatici, case solide e uomini forti. Cose dure e fredde, e crudeli, aspre e aguzze, accidentate, lente e decise; fredde, dure e spietate come l’isola stessa.


     E’ per posti come questo che è stata inventata la parola “desolato”.



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